“La Farmacia Dell’Anima” di Salvatore Testa

Se c’è un elemento che più di ogni altro segna malinconicamente la vita di molti esseri umani, questo è il rimpianto, ossia il ricordo, spesso struggente, di occasioni mancate o di cose e persone perdute. Tino Sicca, protagonista del romanzo, mostra l’intelligenza e l’umiltà di vivere con attenzione l’occasione che si presenta e a suo modo conquista una meritata serenità. Accade lo stesso a Laura, che riesce coraggiosamente a curare le ferite che la vita le ha inferto e a mettere al riparo le sue aspirazioni e i suoi sentimenti. Due bei personaggi Tino e Laura; due spaccati esistenziali ricchi di valori e trepidazioni, quelli tracciati dal giornalista e scrittore Salvatore Testa nel suo nuovo romanzo “La farmacia dell’anima” (Le Parche Edizioni), prefazione di Pino Imperatore, disponibile su tutti gli store online e ordinabile in tutte le librerie.

La Farmacia dell'Anima 1

La Farmacia Dell’Anima

L’autore è il presidente di Self (Secondigliano libro festival), associazione impegnata nella promozione dell’importanza della lettura tra gli studenti, iniziativa quest’anno ampliata, dopo Secondigliano (NA), anche ad altre periferie, che oltre all’annuale organizzazione del premio “Sgarrupato”, organizza concerti per Natale e manifestazioni per la legalità.

Ricordiamo Matilde Serao

Matilde Serao nacque dal matrimonio tra Paolina Borely, nobile greca decaduta e l’avvocato napoletano Francesco Serao. Matilde trascorse l’adolescenza a Napoli, dove il padre cominciò a lavorare come giornalista a Il Pungolo. Visse così fin da piccola l’ambiente della redazione di un giornale. Nonostante questa influenza, e malgrado gli sforzi di sua madre, all’età di otto anni non aveva ancora imparato né a leggere né a scrivere. Imparò più tardi, in seguito alle vicissitudini economiche e alla grave malattia della donna. Riuscì a ottenere il diploma di maestra e lavorò per i telegrafi dello Stato. Ma la vocazione letteraria non tardò ad arrivare. Cominciò dapprima con brevi articoli nelle appendici del Giornale di Napoli, poi passò ai bozzetti e a 22 anni completò la sua prima novella, Opale che inviò al Corriere del Mattino.

A 26 anni lasciò Napoli per andare alla “conquista di Roma”. Nella capitale collaborò per cinque anni con il Capitan Fracassa. Nel 1883 ricevette la sua prima critica negativa da quello che sarebbe diventato suo marito, Edoardo Scarfoglio. Matilde Serao rimase affascinata da quel giovane intelligente e vivace. Nacque una relazione che suscitò il pettegolezzo della Roma-bene. Il 28 febbraio 1885 Matilde ed Edoardo si sposarono. Ebbero quattro figli: Antonio, Carlo e Paolo (gemelli) e Michele. Nonostante le gravidanze, il lavoro di Serao non si interruppe. Nei suoi anni romani pubblicò diversi romanzi.

Come dice Lidia Luberto – giornalista e fondatrice del Premio Matilde Serao – questa donna “è riuscita a conciliare perfettamente la sua vita professionale con quella privata”. Infatti, tra Matilde ed Edoardo non nacque solo un’unione sentimentale, ma anche un sodalizio professionale: insieme nel 1885 fondarono il Corriere di Roma dove Matilde invitò a collaborare le migliori firme del momento, ma che non decollò mai davvero. La coppia decise di trasferirsi a Napoli, per collaborare al Corriere del Mattino. Nel 1891 Scarfoglio e la moglie lasciarono il Corriere di Napoli e la coppia decise la fondazione di un nuovo giornale, che venne chiamato Il Mattino.

Fu una donna a tutto tondo, capace di grandi passioni”. Nel 1892 Matilde, dopo un litigio col marito, decise di lasciare la città per un periodo di riposo in Val d’Aosta. Durante l’assenza della moglie, Edoardo conobbe a Roma Gabrielle Bessard, una cantante di teatro, e tra i due cominciò una relazione. Dopo due anni Gabrielle rimase incinta. Scarfoglio rifiutò di lasciare la moglie e il 29 agosto 1894 la Bessard si presentò dinanzi a casa Scarfoglio e, dopo aver lasciato la piccola figlioletta nata dalla loro unione, si sparò sull’uscio un colpo di pistola. La figlia venne affidata da Scarfoglio a Matilde, che la prese con sé. Matilde scelse per la neonata il nome di sua madre, Paolina. Aveva perdonato il marito ma dopo qualche anno decise di rompere definitivamente la relazione. In quel periodo, una semplice rubrica creata dalla Serao, “Api, mosconi e vespe”, finì per avere successo e Matilde inventò, di fatto, il gossip. Su Il Mattino  prese il nome di Mosconi: “le sue note di costume costituiscono un’analisi geniale e una critica costruttiva della società napoletana”.

Il 13 novembre 1900 sul Mattino apparvero le dimissioni ufficiali della Serao da redattore del giornale. Nel 1903 entrò nella sua vita un altro giornalista, Giuseppe Natale. Con Natale al fianco, fondò – prima donna nella storia del giornalismo italiano – e diresse un nuovo quotidiano, Il Giorno. Il giornale della Serao fu più pacato nelle sue battaglie e raramente polemico e riscosse un buon successo. Dall’unione con Natale nacque una bambina, che Matilde volle chiamare Eleonora, in segno d’affetto per la Duse. La grande guerra intanto si avvicinava rapidamente, ma Il Giorno sembrava essere lontano da qualsiasi iniziativa interventista, a differenza del Mattino. I due giornali assunsero una linea comune solo alla fine del conflitto mondiale.

Dopo la morte di Edoardo Scarfoglio (1917), la Serao sposò Giuseppe Natale. Morto anche il secondo marito, rimase sola, ma continuò con la stessa vitalità il suo lavoro giornalistico e letterario. Matilde morì a Napoli nel 1927, colpita da un infarto mentre era intenta a scrivere che, a suo dire “era il mio destino”. L’ultima parola che è riuscita a completare col pennino mentre redigeva il suo ultimo articolo, il 25 luglio 1927, è stata ‘Amabile’.

1901 Matilde Serao

744037/37

©Archivio Publifoto/Olycom

“Festa notturna” al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli

Giovedì 19/10/2017, Presentazione di Festa notturna di Antonio Orselli al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli.

Lo scopo principale dell’evento, attraverso la presentazione del libro di Antonio Orselli “Festa notturna” coordinata dall’autrice Carla Caputo, è quello di proporre una visione di Piedigrotta lontana dalle consuetudini letterarie. Si ripercorreranno le diverse forme che la festa ha assunto, nei secoli della sua lunga vita, in rapporto con le vicende che hanno caratterizzato la storia della città. Riguardo poi alla festa notturna nella Crypta Neapolitana, si darà rilievo alle correlazioni tra l’evento, i personaggi e i luoghi del mito: il poeta Virgilio, la Grotta di Pozzuoli, la Madonna di Piedigrotta e le forme devozionali a essa legate, e si terranno, per la prima volta, nel doveroso conto, le rarissime fonti scritte e le ultime testimonianze della tradizione orale.

Festa notturna

[…] Benedetto Croce, in una famosa lettera del 1892, indirizzata a Salvatore Di Giacomo, scrisse:
“Che si cantassero canzoni a Piedigrotta sin da tempi antichissimi è probabile; ma nessuno ne parla; neppure quei numerosi dialettali che, specie nel seicento, ci hanno descritto minutamente gli usi e i costumi della plebe napoletana. Fu rivolta l’attenzione su quelle canzoni nel 1835, quando Don Raffaele Sacco fece cantare la sua col famoso ritornello: Te voglio bene assai e tu nun pienze a mme”.
Con la consueta efficace densità della sua scrittura, Croce sollecita diverse suggestioni. Innanzitutto, egli ritiene che alla festa si cantasse probabilmente già in tempi remoti. Considera però probanti i soli dati letterari, e denuncia l’assoluta mancanza di testimonianze al riguardo precedenti l’ottocento. Stranamente, l’acuto osservatore non fa riferimento al canto tradizionale, di cui lui stesso fu ricercatore giusto in quegli anni. […]

Tratto da “Festa notturna” di Antonio Orselli

Festa notturna

Piedigrotta Napoli

Lariulà – Tarantella per Piedigrotta, da “Festa notturna” di Antonio Orselli

Il libro di Antonio Orselli, “Festa notturna” pubblicato il 18/09/2017, offre spunti interessanti e inediti sulla Festa di #Piedigrotta e, in questo post, vi facciamo leggere uno stralcio di testo riguardante la “Tarantella”, un ballo con una gestualità carica di erotismo:

[…] come si può riscontrare oggi in alcune zone del beneventano, dell’avellinese, del casertano e del Cilento, la tarantella può essere eseguita anche in coppia, da danzatori che eseguono un ballo, nel quale appare evidente una gestualità carica di erotismo. È probabile che sotto questa forma, a Napoli, essa abbia svolto, in passato, la stessa funzione che, oggi, assume in provincia la tammurriata, come sembrerebbe alludere l’immensa iconografia pervenutaci. Nella città, il ballo (sia tarantella, che danza sul tamburo) è scomparso almeno dalla fine degli anni ’50, dove proprio nella Piedigrotta, pur se nei festeggiamenti esterni, e a Grotta chiusa oramai da decenni, come si diceva, ancora veniva eseguito da gruppi di festeggianti legati alla Tradizione, provenienti dalle zone interne della regione e non solo da quelle. Non mancano però testimonianze, su una danza denominata tarantella che in passato, nella città, si presentava nelle sue componenti collettive e rituali. Diversi documenti ci raccontano come nella Napoli del Vice Regno spagnolo, fosse ballata una danza, così chiamata, nella festa notturna di San Giovanni a Mare, dove accompagnava dei rituali esplicitamente licenziosi. Pare che, durante la notte del 24 giugno, si accendessero dei grandi falò, dove il popolo vi si raggirava d’intorno con osceni balli, di poi, allere e senza panne, come ci dice il poeta cinquecentesco Velardiniello, si facevano il bagno nell’acqua del mare. Una siffatta manifestazione fu più volte proibita, fino a che non si eliminò del tutto intorno alla prima metà del XVII secolo. In forme apertamente erotiche, alcune danze si sono potute riscontrare nella Napoli di fine ottocento e oltre… […]

Lariulà

“Festa notturna” di Antonio Orselli

Anton Smink Van Pitloo e la Scuola di Posillipo

Nato ad Arnhem nel 1790, Anton Smink Van Pitloo, conosciuto in Italia come Antonio Pitloo, dopo aver frequentato la scuola d’arte nel proprio paese natale si trasferì prima a Parigi e poi a Roma. Nella capitale francese conobbe Jean-Joseph Xavier Bideau e Jean Victor Bertin grazie ai quali decise di dedicarsi alla descrizione del paesaggio piuttosto che all’architettura, con cui aveva iniziato. Nella città romana approfondì il “vedutismo”, genere pittorico che aveva per soggetto vedute prospettiche di città o paesaggi. Ma la svolta arrivò quando nel 1815, al seguito del diplomatico russo, nonché estimatore d’arte, Gregorij Orlov, si trasferì a Napoli, dove rimase fino alla fine della sua vita. La città partenopea fu indispensabile a Pitloo per affinare la propria tecnica pittorica e approfondire la ricerca cromatica e atmosferica iniziata già dai paesaggisti nordici Corot e soprattutto William Turner, autore romantico che realizzò lo splendido “Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi”. Ma perché proprio Napoli? Terra e mare, coste e isole. Rovine antiche come Pompei, Ercolano, Paestum e nobili fortezze come Castel dell’Ovo. Miti e leggende, palazzi, monumenti e oasi verdi. Campagne e soprattutto l’onnipresente ombra del Vesuvio. Qui, un paesaggista aveva tutto ciò che poteva desiderare. A partire dal 1820 Pitloo fondò la Scuola di Posillipo. I più importanti pittori di vedute dell’epoca, circa una quarantina, illustrarono tra il 1820 e il 1860 le bellezze del paesaggio campano, non solo luoghi, ma anche costumi e tradizioni. Le opere realizzate in questo periodo furono esposte nei salotti delle case borghesi e la loro influenza sulla pittura italiana proseguì per tutto l’Ottocento, finendo per imitare le prime fotografie e cartoline postali. Hippolyte Taine, filosofo e critico letterario francese, scrisse in una sua lettera che percepiva la bellezza di Napoli più attraverso le vedute della “Scuola di Posillipo” che dalla realtà. Nonostante le riunioni di questi artisti avvenissero nello studio di Pitloo, il suo principale insegnamento riguardò la pittura “en plain air”, opposta alla visione accademica del paesaggio. Massimo rappresentante di questa Scuola fu Giacinto Gigante, al quale si devono paesaggi ad acquerello particolarmente intimisti e malinconici. Nel 1824 Pitloo vinse, grazie al Il boschetto Francavilla al Chiatamone”, il concorso per succedere alla cattedra di Paese dell’Accademia Borbonica di Belle Arti, nata per la prima volta in Italia. Un olio di 44 per 75 centimetri, dall’inquadratura del tutto insolita in cui il pittore olandese rappresenta la campagna e gli edifici degradati come se mostrasse un paesaggio lirico ed emozionante. Più che le strutture che osservava, egli rappresentava nei suoi dipinti la magia che questi sprigionavano. Pitloo non abbandonò il capoluogo campano neanche quando scoppiò l’epidemia di colera di cui fu vittima nel 1837. Per gran parte della sua vita rese Napoli celebre nei suoi dipinti, a sua volta la città lo consacrò come grande autore di paesaggi adottandolo tra i propri figli illustri.

Tratto da: “L’arte a Napoli – La scuola di Posillipo” dell’Associazione Culturale “Terra Utopiam”, pubblicato da Le Parche Edizioni

L’Arte a Napoli – La Scuola di Posillipo

02-Antonino_Leto_81844-1913-_Una_veduta_del_golfo_di_Napoli_con_i_pescatori

AMALFI_COSTA_MG2_53ef5047982bb

PAESAGGIO CM 54X63 (OLIO SU TELA) big

Pasquale Cerolli - La Sciabica

La Resilienza

Con il termine resilienza si intende la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, è quindi una competenza chiave, che è possibile sviluppare attraverso l’apprendimento di tecniche professionali ed il potenziamento dei fattori personali per trasformare le circostanze avverse in nuove sfide alla propria esistenza.

iStock_000060655704_Small

Secondo Boris Cyrulnik, psichiatra e psicanalista, docente all’Università di Tolone (Francia), la resilienza “è l’arte di navigare sui torrenti”. Un trauma sconvolge il soggetto trascinandolo in una direzione che non avrebbe seguito. Ma una volta risucchiato dai gorghi del torrente che lo portano verso una cascata, il soggetto resiliente deve ricorrere alle risorse interne impresse nella sua memoria, deve lottare contro le rapide che lo sballottano incessantemente. A un certo punto, potrà trovare una mano tesa che gli offrirà una risorsa esterna, una relazione affettiva, un’istituzione sociale o culturale che gli permetteranno di salvarsi. La metafora sull’arte di navigare i torrenti mette in evidenza come l’acquisizione di risorse interne abbia offerto al soggetto resiliente fiducia e allegria. Tale inclinazione, acquisita in tenera età, gli ha conferito un attaccamento sicuro e comportamenti seduttivi che gli permettono di individuare ogni mano tesa. Ma se osserviamo gli esseri umani nel loro “divenire”, constateremo che chi è stato privato di tali acquisizioni precoci potrà metterle in atto successivamente, pur con maggiore lentezza, a condizione che l’ambiente, consapevole di come si costruisce un temperamento, disponga attorno al soggetto ferito qualche tutore di resilienza. Il termine resilienza è stato mutuato dalla fisica per indicare “la capacità di riuscire, di vivere e svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o un evento traumatico che generalmente comportano il grave rischio di un esito negativo.(…) Certo, al momento del trauma, si vede solo la ferita. Sarà possibile parlare di resilienza soltanto molto tempo dopo, quando l’adulto, infine riparato, riconoscerà il trauma infantile subito. Essere resilienti è più che resistere, significa anche imparare a vivere. Purtroppo, costa caro”. Quando la ferita è aperta, siamo orientati al rifiuto. Per tornare a vivere, non dobbiamo pensare troppo alla ferita. “Con il distacco dato dal tempo, l’emozione provocata dal trauma tende a spegnersi lentamente lasciando nei ricordi soltanto la rappresentazione del trauma.”

Leggiamo questo stralcio di testo, tratto dal libro di @DoraBuonfino, #Lemiepagliuzze:

“Finalmente, era venuto il tempo tanto desiderato di pensare ai miei sogni e decidere come condurre la mia vita. Lui ne era uscito ed io avrei potuto vivere senza altre interferenze, senza più timori, e chissà se dimenticare tutto mi avrebbe permesso di sopravvivere alla sensazione di pericolo ormai passata. Davanti mi si presentava la possibilità di non essere più sola, avrei accantonato le liti e le ripicche per i torti fatti o ricevuti. In fondo, i miei coetanei non mi erano del tutto indifferenti e il fatto che nessuno di loro si interessasse a me cominciava a stancarmi. Dovevo lasciare da parte le mie fobie e farmi conoscere sotto una nuova veste. Finalmente ero libera di decidere se rimanere in casa o uscire e, soprattutto, mi sarei potuta recare dalla nonna senza più timore. La voglia di solitudine stava scemando, lasciando il posto al desiderio di avere amicizie. Però, dove avevo scavato un fossato, non potevo pretendere di costruire un passaggio se non con lavoro, impegno e determinazione. La via per arrivare al riscatto si presentava lunga e complicata per gli ostacoli che io stessa avevo costruito, rifiutando a priori di concedere, o concedermi, ogni forma di opportunità. I miei compagni, infatti, faticavano a fidarsi del mio cambiamento disinteressato e testimone della mia resa incondizionata. Per troppo tempo avevo eluso la loro buona volontà ed ora si chiedevano il perché di tanta apertura. Mi imposi, quindi, la costanza dell’attesa e della pazienza, nel frattempo avrei osservato la loro maniera di rapportarsi e le loro idee e aspirazioni, convincendomi che il tempo avrebbe aggiustato tutto. Studiavo i miei coetanei non per copiarne la vita, ma per imparare da loro a vivere. Mi erano nuovi la musica che ascoltavano e i film che guardavano, i discorsi e la maniera in cui trascorrevano il tempo libero. Ne ascoltavo le parole, in silenzio, senza intromettermi, senza mostrare opinioni, e mi dissetavo delle loro emozioni, demolendo gradatamente il muro eretto a difesa delle mie, liberandole, finalmente, dalle catene della solitudine che tutto aveva oppresso e castigato…”

1139b4474ab

“Le mie pagliuzze” di Dora Buonfino

Conosciamo l’autore del libro “Giudizio Universale”

L’autore, Giovanni Carullo, parla del suo libro, “Giudizio Universale”:

“La vita mi ha riservato molteplici colpi di scena in questi primi anni della mia vita, con risonanze sempre diverse e dal risultato incostante. Ho visto persone spezzarsi per molto meno di nulla rispetto ai miei trascorsi e sapere di essere stato capace di superarli è tanto piacevole quanto spronante. Amo scrivere dalla tenera età e spesso mi accorgo di come, nonostante il mio registro linguistico si sia profondamente evoluto, molti aspetti del mio pensiero siano molto più simili a quelli di un ingenuo e disinibito bambino piuttosto che a quelli di un ragazzo. L’umanità ha, da sempre, preso spunto da ciò che lo circonda per rendere ciò che lo circonda qualcosa da qui prendere spunto; atti, gesti, parole e sensazioni, anche di quella che può sembrare la natura più effimera, spesso sono determinanti per cambiare la storia e la vita delle persone e questo libro non è altro che questo, ovvero un insieme di momenti sottili e casuali che hanno reso il mio pensiero, e le persone che lo influenzavano, qualcosa di più grande. L’ordine e il caos sono le componenti più antiche e profonde degli strati del creato e, come tali, regolano indissolubilmente i meccanismi della natura e le sue manifestazioni, tuttavia nonostante questo equilibrio ci mostri la realtà delle cose come uno specchio sulla verità, incontestabile e chiara, l’uomo dal basso della sua esistenza ha creato dei fittizi alter ego chiamati bene e male, giusto e sbagliato, cercando di sintetizzare ed adattare alle necessità umane due cose tanto distanti quanto complementari per renderle alla sua portata. L’uomo ha esaltato l’ordine con le leggi e il caos con le pene, come se l’uno potesse prevalere sull’altro in ordine di giustizia, creando così delle zattere chiamate politica e religione  che gli permettessero di non annegare nel burrascoso e torbido mare della realtà. La guerra, la follia, le regole e i costrutti sono finalizzati al raggiungimento di una pace stabile se non addirittura eterna, mera illusione di un essere che tenta di dare degli argini alle indomabili e incomprensibili acque del cosmo.  Alcuni movimenti credono di poter risvegliare antiche forze, semplicemente ribaltando quelle attuali, convinti di poter purificare il mondo con qualcosa di sozzo come la guerra e di poter equilibrare l’inequilibrabile. Questi confidavano fermamente nel potere del progresso e nelle forze motrici della guerra. Con tutte le nostre forze abbiamo provato a dare un ordine alla vita tramite le leggi ma nulla ci ha portati davvero alla pace, ci sono stati molti regimi e molti sistemi politici, ma essendo essi comunque governati dall’uomo, è sciocco credere che dopo migliaia di anni di fallimentari tentativi si possa arrivare realmente ad un processo etico definitivo. Ebbene cosa siamo noi se non una macchia sul nostro pianeta come quella di sugo su una camicia, insistente e resistente finché il mondo non trova il modo di farci sparire. Come rendere dunque questa macchia incancellabile e soprattutto, avete mai visto voi una macchia che tenta di cancellarsi da sola? La risposta è la sfida, sfidare il mondo, sfidare lo spazio, sfidare il tempo e persino noi stessi perché l’equilibrio tra l’ordine e il caos è etereo, ma non eterno, e l’unico modo che ha il sole per sorgere è quello di sfidare il buio delle tenebre fin dove, e oltre, l’occhio riesce a cogliere la sua essenza, e così la notte fa altrettanto ancora, ancora e ancora. Solo dando a tutto un tempo riusciremo a capire il rapporto tra il momento e l’eternità. La Divina Commedia, e l’opera dantesca in generale, è sempre stata fonte d’ispirazione nonostante il mio fermo e radicato agnosticismo, infatti è proprio l’analisi di queste credenze ed ideologie, da esterno scettico e disinteressato, che mi ha permesso di creare e sintetizzare una linea di pensiero personale e sotto molti aspetti provocatoria. Bibbia, Corano, Torah e qualsiasi altro testo “sacro”, sono enunciazioni tramite le quali l’uomo ha incatenato se stesso a un muro d’ignoranza e restrizioni dal potere magnetico, saturi di una pericolosità colossale. Spero vivamente che nessuno sentasi offeso dalle parole che leggerà poiché il mio volere non è necessariamente quello di criticare Dio o qualsiasi altra entità in cui voi riversate le vostre paure e convinzioni, bensì vorrei spingere, chiunque lo legge, a riflettere maggiormente con la propria mente poiché è questa la vera forza che “in principio” creò l’uomo e la donna e, talvolta, tutte le altre sfumature. Pur se può rivelarsi insolito, rivolgo uno speciale ringraziamento alla vita, a ciò che ho visto e capito in questi brevi ed eterni diciannove anni, ringrazio tutte le persone che mi hanno fatto del male e tutti i momenti brutti che sono stato costretto a vivere perché se riesci a sopravvivere, quando ti forzano a tenere la testa sott’acqua tutto questo tempo, poi impari a non annegare, nonostante tutto. Ogni pagina del “Giudizio Universale” riassume qualche attimo della mia e di molte altre vite, le mie paure, le mie insicurezze, i miei tormenti, i miei ricordi, i miei rimpianti, le mie malinconie e soprattutto la gioia di aver vissuto tutto questo riuscendo ancora a sorridere guardando un bimbo che mette le dita del naso. Arrivate dunque voi alla vostra conclusione poiché io vi propongo, ma non impongo, le mie, anche perché per quanto mi riguarda, come affermava il filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche “Gott ist tot”, Dio è morto”.

Giudizio Universale copertina 1

Giovanni Carullo – Giudizio Universale

Biografia di Giovanni Carullo:

Giovanni Carullo nasce a Pozzuoli, in provincia di Napoli, il 3 maggio 1998, primogenito e unigenito di una modesta famiglia puteolana. Sin da piccolo dimostra vivo e sincero interesse per il mondo dell’arte e in particolare per il teatro e la letteratura. All’età di sei anni cominciò a frequentare la scuola Savino Vitagliano che cambiò però sede a causa del crollo improvviso del soffitto e le condizioni cedevoli dell’intera struttura, meno fortunata fu anche la seconda sede che aveva la fama di avere maestre violente e inadatte al loro compito. Conseguito, successivamente, il diploma delle scuole medie alla Giacinto Diano nella sezione E, (sezione musicale), cominciò il suo percorso verso la maturità presso quella che per lui sarà la più importante e determinante delle tre strutture statali preposte alla formazione culturale e sociale degli studenti, ovvero l’Istituto Magistrale Statale Virgilio di Pozzuoli, indirizzo economico-sociale, che ha reso pratiche le sue capacità letterali, teatrali e umanistiche fino al superamento dell’esame di stato e quindi alla maturità. “Giudizio Universale” è il suo esordio letterario.

“A parlare male degli altri si fa peccato, ma…”

Con questa email, inserita di seguito, e con la risposta negativa da parte dell’autore nell’accondiscendere all’invito di Roberto Saviano, il libro “Il Chiarificatore” di Giuseppe Misso, da noi pubblicato nell’ottobre 2016, non ha ottenuto i risultati che immaginavamo. Questa è solo la prima email che abbiamo ricevuto dal suo Staff, ma essendo solo intermediari tra due fuochi abbiamo dovuto sottostare alle loro volontà. Eppure c’è un qualcosa di strano in tutto questo, un qualcosa che va oltre le nostre misere forze, ed evidenzia la frase: “Il potere logora chi non ce l’ha”, l’aforisma che pare fosse del politico francese Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, ma che in Italia ha la voce e il volto di Giulio Andreotti.

staff robertosaviano <staff.robertosaviano@gmail.com>

26/10/16

me
Buongiorno,
vi contatto per conto di Roberto Saviano a proposito di un libro da voi recentemente edito:
“Il Chiarificatore” di Giuseppe Misso.
Roberto Saviano, come potete sicuramente immaginare, segue da tempo la storia di Giuseppe Misso.
Roberto vorrebbe poter scrivere del libro, che quindi vi chiederei la grande cortesia di farmi avere in PDF, e poi, se possibile, vorrebbe intervistare Misso.
Attendo un cortese cenno di riscontro,
un cordiale saluto e buon lavoro

Il libro, appena pubblicato, fu richiesto dalla Feltrinelli di Napoli e fu subito reperibile in tutte le librerie, ma durò per poco: adesso non viene neanche più esposto… attualmente vendiamo qualche copia tramite Amazon, ma è niente rispetto a quello che ci prefiggevamo. Viene spontaneo pensare a una ripicca nei confronti dell’autore per non aver esaudito i desideri di una persona rilevante, a cui è bastato fare un cenno, un “comando” dall’alto per far rispettare i ruoli…:

“A parlare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”

Di seguito, lo stralcio finale del libro di Giuseppe Misso, “Il Chiarificatore”:

<Nell’ufficio matricola mi presero in consegna tre carabinieri in borghese, per scortarmi in località protetta. Erano i “Referenti” del luogo in cui eravamo diretti, che dipendevano dal Servizio Centrale di Protezione. Ci scambiammo un saluto piuttosto formale e dopo aver sbrigato le pratiche burocratiche relative al mio trasferimento in detenzione domiciliare ci mettemmo in viaggio in auto per raggiungere la città dove abitava Luisa e mio figlio. Durante il tragitto nessuna conversazione. Solo qualche scambio di battute per non apparire scortese. Dal finestrino osservavo le verdi pianure, gli alberi, le campagne, i campi di grano, le casette dai tetti aguzzi, quei paeselli sperduti a ridosso delle alture, e tutto mi appariva estraneo, indeterminato, incomprensibile. Una libertà che non mi dava le stesse emozioni delle altre volte. Forse non avrei più rivisto il lungomare di via Caracciolo, Posillipo, il golfo di Napoli. Mi sentii invadere da un’amarezza per aver scontato, dopo la collaborazione, altri tre anni e cinque mesi. Una sanzione che percepivo come una forma di sadismo attuata soprattutto contro i miei cari. Luisa aveva sofferto le pene in una tremenda solitudine e la mia presenza le avrebbe alleviato quella condizione di apolide. Arrivai nel luogo della mia nuova residenza. La mia compagna mi aspettava affacciata alla ringhiera del terrazzo e appena mi scorse mi fece un segno con la mano. Salutai i carabinieri. Presi l’ascensore e schiacciai il bottone dell’ultimo piano. Luisa e Marco erano sull’uscio di casa ad aspettarmi. Ci baciammo, stringendoci forte tutti e tre assieme. Passammo tante ore a parlare, a ricordare… Ne avevamo di cose da raccontare. L’appartamento era arredato alla buona e composto da due piani. C’era la terrazza che girava tutt’intorno alla casa. Nell’angolo, vicino alla porta d’ingresso, si notava una piccola scala a chiocciola di legno da cui si accedeva alla stanza da letto, un’altra camera e un altro bagno. Luisa e Marco mi facevano da guida. Scendemmo in cucina per gustare una cena frugale e un dolce. Stappammo una bottiglia di spumante e andammo nel salone a bere e chiacchierare ancora. Dopo, mi appartai per telefonare a Teresa in Polonia: volevo sapere come stava mia figlia. La bambina aveva dieci anni e ricordava solo qualche parola in italiano che pronunciava a malapena: “Babbuccio mio, ti voglio bene”. Così mi disse. Le telefonavo anche dal carcere e ripeteva sempre la stessa frase. La madre aveva fatto di tutto affinché dimenticasse la lingua italiana, perché doveva frapporsi tra noi, manipolare le mie parole e fargli credere ciò che voleva. Tutti i mesi inviavo un assegno e non ho mai mancato di mandare altri soldi per le ricorrenze del compleanno della bambina, del suo nome e di tutte le altre festività dell’anno. Non so quale uso ne facesse la madre di questo denaro, ma non potevo fare diversamente. Quando ritornai nel salone ero visibilmente turbato. Luisa mi fissava con ansia per capire se tutto andava bene. La rassicurai con cenno del capo e un mezzo sorriso. Si erano fatte le tre di notte. Salutammo Marco che aveva la sua stanzetta giù. Salimmo al piano di sopra, nella stanza da letto, e ci perdemmo l’uno nelle braccia dell’altro, facendo attenzione a non farci sentire…! Passarono due mesi e la condanna per il reato 416 bis era terminata. Ritornai libero senza nessun obbligo, se non quello di attenermi al codice comportamentale del Servizio Centrale di Protezione, ma in Polonia non potevo andare e nemmeno a Napoli. Marco andò a vivere per conto suo, in un’abitazione poco distante da noi, con il suo compagno. Luisa ha sempre fatto di tutto per sostenermi, per incoraggiarmi, per andare avanti. La sua partecipe presenza è la prova costante di un amore incondizionato. Nelle mie lunghe passeggiate notturne capita di affacciarmi al parapetto del ponte e fissare il corso del fiume, con l’ombra dei miei pensieri che si staglia sull’acqua trascinata lontano fino a disperdersi. Ci saranno altre corse e altre ancora, mentre il tempo si fa circolo nel suo andare…!>

Il Chiarificatore

Post Misso

 

“Due passi insieme” di Chiara Zammarchi

Dopo un viaggio si può tornare profondamente cambiati e, più spesso di quanto si possa pensare, riadattarsi nuovamente al solito stile di vita diventa impossibile. Non pochi sono i casi di persone che, dopo aver trascorso una vacanza indimenticabile, prendono la decisione irrevocabile di far ritorno in quel luogo appena visitato e decidere di trascorrervi il resto della propria vita.
Quante volte abbiamo accarezzato il sogno di dare una direzione diversa alla nostra vita?  E quante volte abbiamo abbandonato tale idea perché la ragione ha preso il sopravvento sull’istinto? Usiamo il termine “ragione” per celare la paura insita in ognuno di noi di deviare il percorso che abbiamo intrapreso e per non ammettere neanche a noi stessi di non avere il coraggio di metterci in discussione, di navigare verso un mare incerto e trasformare la nostra esistenza…

lacapannadelsilenzio.it

Due passi insieme finale

“Il trovarsi in un paese che non è il tuo ha un fascino che toglie il respiro, può regalarti attimi di un’intensità unica, pieni di emozioni. La voglia di conoscere qualcosa di nuovo e, a volte, totalmente differente da quello che pensiamo, inebria sempre il mio cuore. Mi sentivo più leggera e questo accrebbe le mie possibilità di riuscita. Ero carica di energie e riuscivo a sorridere anche in momenti difficili, come quando, arrivati alla fermata della metropolitana, incontrammo la nostra prima difficoltà. Non c’era l’ascensore e le scale mobili erano troppo strette per il nostro passeggino, quindi dovemmo sganciare i borsoni laterali, prendere in braccio Gioele e chiamare gli addetti della metropolitana per farci aiutare. Una volta usciti alla luce del sole, lo splendore di Madrid mi lasciò senza fiato, a cominciare dalla “Gran Vía” del 1910, che rappresenta l’emblema della città e che viene attraversata da un fiume di persone a qualsiasi ora del giorno. Un quartiere fuori dal tempo, che ospita cinema, teatri e i più grandi i negozi della capitale, oltre ad alcuni edifici emblematici e i primi grattacieli di Madrid. La bellezza di un viaggio è la scoperta di qualcosa di nuovo che nasce attraverso la conoscenza di un altro modo di vivere, di parlare, di sorridere e d’essere, mi piace assorbire le tradizioni e le sensazioni che trasmettono, sento la necessità di aprirmi al mondo e accogliere, sentire, la voce del cambiamento…”

Due passi insieme

“La bellezza della vita è riuscire ad ammirare e cogliere tutte le sfumature e le diversità che ci circondano. Ogni giorno andiamo incontro a mille cambiamenti e ci scontriamo con altrettante novità, così da ritrovarci in un luogo totalmente diverso da quello calcato il giorno prima e anche se tutto appare più faticoso, non dimentichiamo mai chi siamo e dove vogliamo andare, perché il mondo cambia in continuazione e quindi, anche il terreno che calpestiamo e tutto ciò che ci circonda”.

Chiara Zammarchi

 

13 libri da leggere sotto l’ombrellone

Tra un cocktail al tramonto, una playlist musicale e un tuffo al mare, trova anche il tempo per leggere…

Le Parche Edizioni

Libri sotto l'ombrellone