“Festa notturna” al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli

Giovedì 19/10/2017, Presentazione di Festa notturna di Antonio Orselli al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli.

Lo scopo principale dell’evento, attraverso la presentazione del libro di Antonio Orselli “Festa notturna” coordinata dall’autrice Carla Caputo, è quello di proporre una visione di Piedigrotta lontana dalle consuetudini letterarie. Si ripercorreranno le diverse forme che la festa ha assunto, nei secoli della sua lunga vita, in rapporto con le vicende che hanno caratterizzato la storia della città. Riguardo poi alla festa notturna nella Crypta Neapolitana, si darà rilievo alle correlazioni tra l’evento, i personaggi e i luoghi del mito: il poeta Virgilio, la Grotta di Pozzuoli, la Madonna di Piedigrotta e le forme devozionali a essa legate, e si terranno, per la prima volta, nel doveroso conto, le rarissime fonti scritte e le ultime testimonianze della tradizione orale.

Festa notturna

[…] Benedetto Croce, in una famosa lettera del 1892, indirizzata a Salvatore Di Giacomo, scrisse:
“Che si cantassero canzoni a Piedigrotta sin da tempi antichissimi è probabile; ma nessuno ne parla; neppure quei numerosi dialettali che, specie nel seicento, ci hanno descritto minutamente gli usi e i costumi della plebe napoletana. Fu rivolta l’attenzione su quelle canzoni nel 1835, quando Don Raffaele Sacco fece cantare la sua col famoso ritornello: Te voglio bene assai e tu nun pienze a mme”.
Con la consueta efficace densità della sua scrittura, Croce sollecita diverse suggestioni. Innanzitutto, egli ritiene che alla festa si cantasse probabilmente già in tempi remoti. Considera però probanti i soli dati letterari, e denuncia l’assoluta mancanza di testimonianze al riguardo precedenti l’ottocento. Stranamente, l’acuto osservatore non fa riferimento al canto tradizionale, di cui lui stesso fu ricercatore giusto in quegli anni. […]

Tratto da “Festa notturna” di Antonio Orselli

Festa notturna

Piedigrotta Napoli

Lariulà – Tarantella per Piedigrotta, da “Festa notturna” di Antonio Orselli

Il libro di Antonio Orselli, “Festa notturna” pubblicato il 18/09/2017, offre spunti interessanti e inediti sulla Festa di #Piedigrotta e, in questo post, vi facciamo leggere uno stralcio di testo riguardante la “Tarantella”, un ballo con una gestualità carica di erotismo:

[…] come si può riscontrare oggi in alcune zone del beneventano, dell’avellinese, del casertano e del Cilento, la tarantella può essere eseguita anche in coppia, da danzatori che eseguono un ballo, nel quale appare evidente una gestualità carica di erotismo. È probabile che sotto questa forma, a Napoli, essa abbia svolto, in passato, la stessa funzione che, oggi, assume in provincia la tammurriata, come sembrerebbe alludere l’immensa iconografia pervenutaci. Nella città, il ballo (sia tarantella, che danza sul tamburo) è scomparso almeno dalla fine degli anni ’50, dove proprio nella Piedigrotta, pur se nei festeggiamenti esterni, e a Grotta chiusa oramai da decenni, come si diceva, ancora veniva eseguito da gruppi di festeggianti legati alla Tradizione, provenienti dalle zone interne della regione e non solo da quelle. Non mancano però testimonianze, su una danza denominata tarantella che in passato, nella città, si presentava nelle sue componenti collettive e rituali. Diversi documenti ci raccontano come nella Napoli del Vice Regno spagnolo, fosse ballata una danza, così chiamata, nella festa notturna di San Giovanni a Mare, dove accompagnava dei rituali esplicitamente licenziosi. Pare che, durante la notte del 24 giugno, si accendessero dei grandi falò, dove il popolo vi si raggirava d’intorno con osceni balli, di poi, allere e senza panne, come ci dice il poeta cinquecentesco Velardiniello, si facevano il bagno nell’acqua del mare. Una siffatta manifestazione fu più volte proibita, fino a che non si eliminò del tutto intorno alla prima metà del XVII secolo. In forme apertamente erotiche, alcune danze si sono potute riscontrare nella Napoli di fine ottocento e oltre… […]

Lariulà

“Festa notturna” di Antonio Orselli

“A parlare male degli altri si fa peccato, ma…”

Con questa email, inserita di seguito, e con la risposta negativa da parte dell’autore nell’accondiscendere all’invito di Roberto Saviano, il libro “Il Chiarificatore” di Giuseppe Misso, da noi pubblicato nell’ottobre 2016, non ha ottenuto i risultati che immaginavamo. Questa è solo la prima email che abbiamo ricevuto dal suo Staff, ma essendo solo intermediari tra due fuochi abbiamo dovuto sottostare alle loro volontà. Eppure c’è un qualcosa di strano in tutto questo, un qualcosa che va oltre le nostre misere forze, ed evidenzia la frase: “Il potere logora chi non ce l’ha”, l’aforisma che pare fosse del politico francese Charles Maurice de Talleyrand-Périgord, ma che in Italia ha la voce e il volto di Giulio Andreotti.

staff robertosaviano <staff.robertosaviano@gmail.com>

26/10/16

me
Buongiorno,
vi contatto per conto di Roberto Saviano a proposito di un libro da voi recentemente edito:
“Il Chiarificatore” di Giuseppe Misso.
Roberto Saviano, come potete sicuramente immaginare, segue da tempo la storia di Giuseppe Misso.
Roberto vorrebbe poter scrivere del libro, che quindi vi chiederei la grande cortesia di farmi avere in PDF, e poi, se possibile, vorrebbe intervistare Misso.
Attendo un cortese cenno di riscontro,
un cordiale saluto e buon lavoro

Il libro, appena pubblicato, fu richiesto dalla Feltrinelli di Napoli e fu subito reperibile in tutte le librerie, ma durò per poco: adesso non viene neanche più esposto… attualmente vendiamo qualche copia tramite Amazon, ma è niente rispetto a quello che ci prefiggevamo. Viene spontaneo pensare a una ripicca nei confronti dell’autore per non aver esaudito i desideri di una persona rilevante, a cui è bastato fare un cenno, un “comando” dall’alto per far rispettare i ruoli…:

“A parlare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”

Di seguito, lo stralcio finale del libro di Giuseppe Misso, “Il Chiarificatore”:

<Nell’ufficio matricola mi presero in consegna tre carabinieri in borghese, per scortarmi in località protetta. Erano i “Referenti” del luogo in cui eravamo diretti, che dipendevano dal Servizio Centrale di Protezione. Ci scambiammo un saluto piuttosto formale e dopo aver sbrigato le pratiche burocratiche relative al mio trasferimento in detenzione domiciliare ci mettemmo in viaggio in auto per raggiungere la città dove abitava Luisa e mio figlio. Durante il tragitto nessuna conversazione. Solo qualche scambio di battute per non apparire scortese. Dal finestrino osservavo le verdi pianure, gli alberi, le campagne, i campi di grano, le casette dai tetti aguzzi, quei paeselli sperduti a ridosso delle alture, e tutto mi appariva estraneo, indeterminato, incomprensibile. Una libertà che non mi dava le stesse emozioni delle altre volte. Forse non avrei più rivisto il lungomare di via Caracciolo, Posillipo, il golfo di Napoli. Mi sentii invadere da un’amarezza per aver scontato, dopo la collaborazione, altri tre anni e cinque mesi. Una sanzione che percepivo come una forma di sadismo attuata soprattutto contro i miei cari. Luisa aveva sofferto le pene in una tremenda solitudine e la mia presenza le avrebbe alleviato quella condizione di apolide. Arrivai nel luogo della mia nuova residenza. La mia compagna mi aspettava affacciata alla ringhiera del terrazzo e appena mi scorse mi fece un segno con la mano. Salutai i carabinieri. Presi l’ascensore e schiacciai il bottone dell’ultimo piano. Luisa e Marco erano sull’uscio di casa ad aspettarmi. Ci baciammo, stringendoci forte tutti e tre assieme. Passammo tante ore a parlare, a ricordare… Ne avevamo di cose da raccontare. L’appartamento era arredato alla buona e composto da due piani. C’era la terrazza che girava tutt’intorno alla casa. Nell’angolo, vicino alla porta d’ingresso, si notava una piccola scala a chiocciola di legno da cui si accedeva alla stanza da letto, un’altra camera e un altro bagno. Luisa e Marco mi facevano da guida. Scendemmo in cucina per gustare una cena frugale e un dolce. Stappammo una bottiglia di spumante e andammo nel salone a bere e chiacchierare ancora. Dopo, mi appartai per telefonare a Teresa in Polonia: volevo sapere come stava mia figlia. La bambina aveva dieci anni e ricordava solo qualche parola in italiano che pronunciava a malapena: “Babbuccio mio, ti voglio bene”. Così mi disse. Le telefonavo anche dal carcere e ripeteva sempre la stessa frase. La madre aveva fatto di tutto affinché dimenticasse la lingua italiana, perché doveva frapporsi tra noi, manipolare le mie parole e fargli credere ciò che voleva. Tutti i mesi inviavo un assegno e non ho mai mancato di mandare altri soldi per le ricorrenze del compleanno della bambina, del suo nome e di tutte le altre festività dell’anno. Non so quale uso ne facesse la madre di questo denaro, ma non potevo fare diversamente. Quando ritornai nel salone ero visibilmente turbato. Luisa mi fissava con ansia per capire se tutto andava bene. La rassicurai con cenno del capo e un mezzo sorriso. Si erano fatte le tre di notte. Salutammo Marco che aveva la sua stanzetta giù. Salimmo al piano di sopra, nella stanza da letto, e ci perdemmo l’uno nelle braccia dell’altro, facendo attenzione a non farci sentire…! Passarono due mesi e la condanna per il reato 416 bis era terminata. Ritornai libero senza nessun obbligo, se non quello di attenermi al codice comportamentale del Servizio Centrale di Protezione, ma in Polonia non potevo andare e nemmeno a Napoli. Marco andò a vivere per conto suo, in un’abitazione poco distante da noi, con il suo compagno. Luisa ha sempre fatto di tutto per sostenermi, per incoraggiarmi, per andare avanti. La sua partecipe presenza è la prova costante di un amore incondizionato. Nelle mie lunghe passeggiate notturne capita di affacciarmi al parapetto del ponte e fissare il corso del fiume, con l’ombra dei miei pensieri che si staglia sull’acqua trascinata lontano fino a disperdersi. Ci saranno altre corse e altre ancora, mentre il tempo si fa circolo nel suo andare…!>

Il Chiarificatore

Post Misso

 

13 libri da leggere sotto l’ombrellone

Tra un cocktail al tramonto, una playlist musicale e un tuffo al mare, trova anche il tempo per leggere…

Le Parche Edizioni

Libri sotto l'ombrellone

L’arte a Napoli e la Scuola di Posillipo

Sin dalla metà del XVIII secolo, nell’Italia meridionale la pittura di paesaggio fu esercitata da una folta schiera di artisti che trovarono in questo genere pittorico motivo di sopravvivenza. Il tutto nacque grazie al mercato dei turisti stranieri che, soprattutto dopo la scoperta degli scavi di Pompei ed Ercolano, inclusero la Campania tra le tappe obbligate del Grand Tour e, quando la vacanza finiva, amavano ritornare a casa portando come souvenir una veduta di Napoli o delle isole del Golfo. Agli inizi dell’800 questa tradizione si rinnovò profondamente in senso romantico grazie all’influenza di molti pittori stranieri, tra cui Turner e lo stesso Corot che stazionarono a Napoli per lunghi periodi, attirati dalla dolcezza del clima e dalla bellezza dei paesaggi campani. E’ proprio nell’atelier di un paesaggista olandese, Anton Sminck van Pitloo (Antonio Pitloo), che intorno agli anni 20 si ritrovò un gruppo di giovani pittori desiderosi di innovare la pittura paesaggistica di tradizione partenopea attraverso una resa più moderna e lirica, in sintonia con le ricerche romantiche d’oltralpe. Ne venne fuori una pittura spontanea, eseguita dal vero con le tecniche più disparate: dalla tempera, all’olio, all’acquarello, realizzate su tela o su materiale di recupero, come legno, carta o cartone. Pertanto i pittori accademici, legati agli schemi neoclassici, dediti a dipingere su tele di grandi dimensioni, trovarono ridicole e “turistiche” queste vedute realizzate in tono minore con linee prospettiche imprecise, e indicarono come Scuola di Posillipo questo gruppo di pittori, associando al termine un significato dispregiativo. Succede, invece, che quelle piccole opere che rappresentano la bellezza del territorio campano con vedute di paesaggi incantati, scorci di spiagge dorate, movimentate e spontanee scene di vita quotidiana, prendono forza e integrano prepotentemente la cultura napoletana incontrando il favore non solo dei turisti, che vengono ad acquistare i quadri da ogni parte di Europa, ma anche dell’aristocrazia e dalle case regnanti italiane e straniere. Il merito principale dei pittori della Scuola di Posillipo fu quello di non accontentarsi mai dei risultati raggiunti: la loro ricerca era continua. Visitavano gli atelier dei pittori stranieri residenti a Napoli o a Roma, visitavano mostre e alcuni di loro si recarono in Francia e in Inghilterra per osservare da vicino la produzione dei grandi paesaggisti romantici, altri arrivarono fino in Oriente per captare nuova linfa vitale al movimento. La personalità di maggior spicco della scuola fu Giacinto Gigante che, specialmente con la tecnica dell’acquerello, raggiunse risultati eccelsi guadagnandosi il favore dell’aristocrazia locale ed estera, in particolare quella francese e russa. La pittura di Giacinto Gigante, pur essendo simile nei soggetti a quella degli altri membri della scuola, fu molto differente nella realizzazione. Egli superò il limite dato dalla veduta senza tradirlo, e, pur rendendolo riconoscibile, lo arricchì del tocco lirico e creativo della sua fantasia. Nonostante la ricchezza di suggestioni immaginarie, le sue realizzazioni paesaggistiche hanno una costante chiarezza naturalistica e non scadono mai nel retorico e nello scenografico.

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Consalvo Carelli – Marina di Capri

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L’Arte a Napoli – La Scuola di Posillipo

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Anche noi, in questo piccolo spazio, stiamo seminando emozioni e lentamente ci accingiamo a raccogliere i frutti nel nostro giardino di libri. Le Parche Edizioni è nata per investire sul capitale creativo e culturale di nuovi autori, che attraverso il nostro contributo professionale, etico e imprenditoriale, auspicano di vedere realizzati i propri sogni. In un anno di attività il nostro percorso ha raggiunto moltissimi autori, ma abbiamo dovuto frazionare questo afflusso selezionando solo quelli più interessanti e in questo articolo vogliamo ripercorrerli tutti, invitandovi a seguirli sul nostro sito:

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Narrativa e Poesia

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Sul sito trovate anche libri classici e di varia

La verità è un atto violento…

Detto Peppe ‘o nasone, Giuseppe Misso è il boss della Sanità, quartiere nel centro storico di Napoli. Nato nel 1947, mosse i suoi primi passi nel mondo criminale nel campo dei furti e delle rapine, consumate con il suo amico d’infanzia Luigi Giuliano, dell’omonimo e fortissimo clan di Forcella. Finito presto in carcere, Misso ne uscì quando il territorio napoletano era teatro di scontro tra la Nuova camorra organizzata di Cutolo e la Nuova Famiglia. Aperto un negozio di abbigliamento in via Duomo, finì subito nelle maglie del racket del clan Giuliano, dominante nella zona. Misso si oppose al suo amico di infanzia. Fu l’inizio di  una guerra feroce tra i due. Sanità e Forcella, quartieri limitrofi del centro storico di Napoli, hanno prodotto due storiche famiglie, Misso e Giuliano. Potenti e vicinissime. La storia di ‘o nasone si incrocia con una triste pagina dello stragismo italiano. Nel 1985 sul rapido Napoli-Milano una bomba uccise 17 persone. Misso, considerato coinvolto nell’attentato, viene condannato all’ergastolo in primo grado, verrà poi assolto in secondo grado e in Cassazione. Ma il giorno dell’assoluzione non sarà momento da festeggiare. Proprio di ritorno dall’udienza, in un agguato viene uccisa sua moglie. L’assassinio viene messo in relazione con lo scontro interno alla Sanità dove l’Alleanza di Secondigliano provava a estendere i suoi tentacoli. Lo scontro sarà piuttosto lungo e vedrà numerosi morti. Alla apparente vita ritirata e ormai lontana dalle scene della malavita di Misso che, uscito l’ultima volta dal carcere, si iscrive alla Camera di Commercio per riprendere il suo vecchio lavoro di commerciante di abbigliamento, fanno fronte le relazioni investigative dell’Antimafia che nel 2006 e 2007 lo considerano ancora un capoclan alla guida di una delle più potenti famiglie della camorra cittadina.

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