Storia dell’autismo: evoluzione del concetto

Portare l’attenzione al percorso dello sviluppo del concetto di autismo e della sua definizione può risultare interessante per iniziare a comprendere la complessità e la polivalenza che oggi il termine “autismo” esprime. La patologia oggi riconosciuta con il termine “autismo” ha subito nel solo ‘900 molteplici processi di adeguamento semantico. Il primo inquadramento diagnostico dei disturbi “psicotici” ad insorgenza molto precoce è attribuito a Krapelin, che aveva ricondotto tutti i casi di psicosi infantile al gruppo della demenza precoce. Disturbi comportamentali in infanzia o adolescenza, caratterizzati da ecolalia o stereotipie, venivano trattati quindi all’inizio del XX secolo come forme di demenza precoce a eziologia organica o inclusi nel gruppo delle oligofrenie. Il termine autismo (dal greco “autus”, che significa “se stesso”), venne utilizzato per la prima volta nel 1911 da Eugen Bleuer (1857-1939), il quale aveva individuato, come sintomo importante della schizofrenia, un particolare stato di pensiero nella prima infanzia, talvolta perdurante nel tempo, di tipo inconscio, tendente alla propria individualità, all’isolamento e alla fuga in realtà fantastiche. Per diverso tempo il termine autismo rimase legato a quadri clinici di schizofrenia. I primi ad ipotizzare una vera e propria “sindrome autistica” furono Kanner (1943), un neuropsichiatra infantile austriaco e Asperger (1944), uno psichiatra della stessa nazionalità, che quasi contemporaneamente, ma in modo autonomo, descrisse una sintomatologia simile nominata poi “sindrome di Asperger”. Kanner (1943) descrisse con la formula autismo precoce infantile un quadro clinico molto caratteristico da lui osservato in 11 bambini con psicosi infantile, mettendo in evidenza un’incapacità nel rapportarsi all’ambiente nei modi tipici dell’età, una tendenza ad isolarsi, a non recepire i segnali provenienti dall’esterno (tanto che il motivo principale che portava i genitori a consulti specialistici era il sospetto di sordità) e gravi disturbi comunicativi (mutismo, ecolalia, difficoltà nell’uso del pronome “io”, ecc.). Sebbene venisse utilizzato lo stesso termine introdotto da Bleurer, l’autismo, così come descritto da Kanner, non rappresentava una regressione, com’era invece nella schizofrenia, bensì un mancato sviluppo. Kanner ipotizzò infatti un’incapacità innata di dar luogo alle normali relazioni affettive. I tratti caratteristici dell’autismo precoce infantile venivano così specificati: “un ritiro da qualsiasi contatto umano, un desiderio ossessivo di mantenere la stessa conformazione dell’ambiente, un rapporto facile con gli oggetti inanimati, una fisionomia pensierosa ed intelligente, un mutismo o una specie di linguaggio che non pare in funzione della comunicazione interpersonale”. Seguendo l’evoluzione della sindrome, Kanner rilevò inoltre la gravità della prognosi: i bambini erano diventati gravi handicappati mentali adulti, in molti casi con elementi psicotici, nella maggior parte istituzionalizzati, con grandi disturbi delle capacità relazionali e di socializzazione. L’indagine sintomatologica di Kanner costituì un fondamentale punto di avvio per lo studio di questa sindrome. Le osservazioni cliniche del neuropsichiatra relative all’isolamento sociale, al rifiuto dei cambiamenti e alle disfunzioni comunicative sono sopravvissute nel corso degli anni, mentre altri aspetti dello studio originale sono stati modificati o rifiutati alla luce delle ricerche successive. L’autore elaborò nei suoi primi scritti l’ipotesi, che più tardi egli stesso ritrattò, secondo la quale i genitori costituirebbero la causa principale dell’autismo dei figli. Egli osservò che “vi è nel passato di questi bambini autistici un altro comune denominatore assai interessante. Tra i genitori, nonni e collaterali troviamo molti medici, scienziati, scrittori, giornalisti e artisti…”. Descrisse perciò questi adulti come persone realizzate da un punto di vista professionale, con alti livelli di istruzione ma freddi, distaccati e perfezionisti, privi di senso dell’umorismo e che trattavano le persone sulla base di una meccanizzazione dei rapporti umani. La concezione di Kanner condizionò gli studi per molti anni e portò i clinici ad avversare i genitori. L’attribuzione della responsabilità della patologia ai genitori venne sostenuta dall’approccio psicodinamico secondo il quale (psichiatra infantile di orientamento analitico) l’autismo deriverebbe da una profonda alterazione degli stati dell’io, principalmente in senso emotivo-affettivo, da ricondurre eziologicamente alla prima infanzia e alla relazione con la madre. Bettelheim (1967), psichiatra infantile di orientamento analitico, adottò l’espressione “madre frigorifero” per descrivere un atteggiamento materno caratterizzato da carenza di contatto fisico, pratiche alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio e/o nel contatto oculare con il figlio. Il bambino percependo nella madre il desiderio di annullarlo, verrebbe colto dalla paura di annientamento da parte del mondo, dal momento che questo è rappresentato proprio dalla madre. L’autismo sarebbe, in quest’ottica, un meccanismo di difesa. Tuttavia, già sul finire degli anni ’50, si affacciò ad opera di Goldstein (1959) un’interpretazione biologica ma proiettata nello psichico, secondo la quale sarebbero presenti deficit organici con conseguenti stati di angoscia, cui il soggetto si difenderebbe attraverso forme di autoesclusione. A partire dagli anni ’60, le critiche al modello psicodinamico si fecero sempre più forti, sostenute da esempi di rifiuto affettivo nell’infanzia che non hanno prodotto casi di autismo e dalla rilevazione che i genitori di bambini affetti da autismo non mostravano tratti patologici o di personalità significativamente diversi da quelli di bambini con altri handicap o normodotati (Pitfield, Oppenheim, 1964; Cox, Rutter, Newman, Bartak, 1975). Oggi è noto, anche dal Documento NIHM, che l’autismo è presente in famiglie di ogni razza, religione ed estrazione sociale (Wing, 1980) e che essi hanno problemi nell’interagire con le persone in generale e non esclusivamente coi genitori. Si riconosce perciò che il comportamento dei genitori non svolge alcun ruolo nella patogenesi dell’autismo: tuttavia il dolore nel sentirsi in qualche modo responsabili tende a persistere nei ricordi delle famiglie, anche in quelle i cui figli erano nati dopo la confutazione di questa teoria. Un altro aspetto dell’autismo di Kanner confutato dagli studi a lui successivi riguarda la presenza o meno di ritardo mentale nei soggetti autistici. L’autore sosteneva che essi fossero dotati di buone potenzialità cognitive: benché la prestazione ai test fosse allo stesso livello di quella di altri soggetti con ritardo mentale, i soggetti affetti da autismo, secondo Kanner, possedevano un’innata capacità, non completamente valutabile mediante i test né manifestata nel corso della vita reale. Negli anni ’70 Rutter (1978) falsificò questa ipotesi. Le sue ricerche e molte altre successive hanno dimostrato che i risultati ottenuti da soggetti autistici ai test di intelligenza ed evolutivi, rientrano nella fascia del ritardo mentale per la maggior parte dei casi (Rutter, Bailey, Bolton e Le Couteur, 1994), con una collocazione costante nel tempo. Sul finire degli anni ’80 (Frith, 1989) è stato sottolineato l’aspetto cognitivo dell’autismo: la patologia deriverebbe secondo questo approccio da un difetto nello sviluppo della teoria della mente, in conseguenza del quale i soggetti autistici avrebbero difficoltà ad attribuire all’altro stati mentali come conoscenze o credenze. Come si è visto, il concetto di autismo ha subito nel corso di mezzo secolo notevoli modifiche. Nelle classificazioni successive a quella di Kanner si intravede il tentativo di svincolarsi dalla sua classificazione e di abbandonare così definitivamente la concezione che vede l’autismo inserito tra le schizofrenie. È solo dal 1980, con la pubblicazione del DSM III (APA, 1980), che il disturbo autistico viene incluso in una classificazione diagnostica come entità clinica separata ed indipendente.

Tratto dal “Progetto ministeriale di ricerca finalizzata” Regione Lombardia – anno 2004

La famiglia davanti all’autismo

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Nozione d’amore – Appunti di un viaggio all’inverso

Aurora, madre di due amatissime ragazze autistiche, Laura e Luce, compie attraverso queste pagine un incredibile viaggio all’inverso, lasciando alle sue spalle la mancanza d’amore e d’amicizia che per anni l’ha condizionata. Il dolore non ha indurito il suo cuore, gli abbandoni non hanno minato il suo amor proprio e le malattie non l’hanno resa impotente: vive di concretezza e immaginazione, seguendo l’incombenza di un disegno superiore, intravisto con la mediazione della sua interiorità e dei suoi arcani contenuti.

Prefazione di Patrizia Azzani sulla raccolta poetica di Norberto Mazzucchelli

Scrivere la Presentazione a “Rime inesplorate” è una gioiosa premura che affettuosamente assolvo per avvicinare la mente del lettore alla POESIA di Norberto Mazzucchelli, nel tentativo di non scadere in noiose impalcature che non renderebbero giustizia alla schiettezza della sua ispirazione snella. Scrivere/leggere POESIA oggi è sempre più un’avventura che rischia di essere travolta dalla contemporaneità globalizzante e rumorosa di un presente straniante che non lascia spazio alla primigenia peculiarità di ciascun individuo. Tuttavia, se il nostro tempo sembra non possedere più nulla di epico da celebrare con solenni ritmi, l’ispirazione poetica continua ad essere l’eredità inconscia di chi riesce a trasformare uno strano agglomerato di vocali e consonanti in un codice adamantino di verità. L’autore di questa raccolta di poesie porta in sé una ispirazione istintiva, quasi praticata come un oracolo, e per questo nascosta, profonda, appena sfiorata e tuttavia vigorosa, che dà origine a una architettura poetica originale, in grado di descrivere il groviglio delle vibrazioni che si sprigionano dal suo animo. Così, come se vivesse in un vettore temporale alternativo, il poeta si fa osservatore di un presente invisibile ai più, intraprendendo un viaggio introspettivo, messaggero di valori universali nella sua proposizione di simbologia archetipa. “Rime inesplorate” è una silloge di liriche su temi cari all’autore: la leggerezza, l’arte poetica, l’ansia di eternità, l’amore, la tensione religiosa, la memoria degli affetti e dei luoghi cari, il tempo presente, la felicità nelle piccole cose. L’indagine è condotta su soggetti diversi e ogni poesia si nutre di purezza e di essenzialità, immergendosi nella “parola” che al poeta piace contemplare nel gioco di trasformarla in un coacervo di emozioni e suoni. Il ricorso diffuso alla metrica e alla rima crea uno spazio magnetico che permette all’autore di perfezionare l’ispirazione originaria, attraverso un accurato e impercettibile labor limae. In questo modo l’autore riesce a restituire con rigore il significato del suo personale viaggio, schiudendo la sua POESIA alla formidabile forza CONOSCITIVA.

Patrizia Azzani

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“Rime Inesplorate” di Norberto Mazzucchelli

Le mie Pagliuzze di Dora Buonfino

Oggi abbiamo pubblicato il secondo libro di Dora Buonfino #Lemiepagliuzze, un romanzo autobiografico che parla di un tema delicato e complesso, un problema, purtroppo, ricorrente nella nostra società, l’abuso sui minori. Ne abbiamo già parlato nel post precedente, ma con l’uscita del libro di Dora, vogliamo evidenziare maggiormente questa “violenza” assurda e inconcepibile, facendovi leggere la prefazione inserita nel libro dalla psicologa Annarita Arso Psiche Nessuno e Centomila

“Secondo una vecchia leggenda, sarebbe possibile far scomparire le verruche dalle mani strofinandoci sopra una pagliuzza di fieno. Per assicurarsi che non tornino, sarebbe poi opportuno ripiegarla e riporla in un luogo da cui si è certi che non si passerà mai più. La protagonista di questo romanzo le sue pagliuzze sceglie di affidarle al lettore. Lo fa con un’intenzione che ha ben poco di magico o superstizioso, ma che assume invece una forte valenza catartica perché, quando il dolore diviene tanto difficile da tollerare, è importante trovare la forza e il coraggio di dividerne il peso con qualcuno. Così il fardello che si trascina dietro prova ad alleggerirlo prendendo il lettore per mano e guidandolo nei meandri della propria storia, scegliendo con cura le parole in cui incasellarla. Dando forma alla ferita che l’infanzia violata le ha lasciato in eredità, descrivendo il vuoto che ha provato ripetutamente a riempire confidando nell’amore di un altro che guarisce, tracciando i contorni di quello strappo nel senso del Sé in cui il dolore per anni si è fatto spazio, accarezzando quel disperato bisogno di conferme affettive a lungo bloccato ad un bivio buio del cuore, a metà strada tra la tentazione di chiedere e la paura di essere deriso. La protagonista racconta di come ci si possa riscoprire fragili, vulnerabili, soli, quando si è stati costretti a costruire la propria identità inseguiti da un orco che prova a distruggerne le fondamenta. Di come ci si possa persino rivestire con i sensi di colpa, aggiungendo un’altra tassa al conto già salato dell’innocenza violata. Di come si possa sopravvivere alla sensazione di essere costantemente in bilico su una fune sottile, sprovvisto di una barra che aiuti a mantenere l’equilibrio. Di come la violenza, soprattutto se perpetrata da chi invece dovrebbe dispensare amore a piene mani, possa causare un dolore talmente ingombrante che fatica a trovare parole della taglia giusta in cui farsi spazio. La protagonista non ha nome, non ha certezze, non ha porti sicuri in cui approdare con le proprie paure. Ha solo una lista di cose da cambiare, un paio di forbici per tagliare via il superfluo e un diario in cui annotare ciò che non è consigliabile dimenticare. E poi ha tanti tasselli di vita sparsi sul pavimento, in attesa che qualcuno la aiuti a ricomporli nella giusta collocazione, consapevole di dover imparare a conviverci per non correre il rischio di sentirsi di troppo anche quando resta sola con se stessa. Non teme di convivere con il passato, ma ha bisogno di seppellirne i fantasmi. Così sceglie di rovistare proprio in quella vulnerabilità che la spaventa, imparando ad immergere le mani in quella ferita originaria perché smetta di fare male. Sceglie soprattutto di liberarsi dalle maschere di felicità maldestramente indossate per rifuggire la propria interiorità, consapevole del fatto che il vuoto che vi alberga attende solo un contenitore che gli dia forma. Con il suo secondo libro, “Le mie pagliuzze”, Dora Buonfino di quel contenitore ne fa omaggio al lettore, irrompendo nel quotidiano di una famiglia dalla fedina morale immacolata ma dalle morali multiple, svelandone le ombre e le contraddizioni. Perché i legami familiari non sempre nutrono, qualche volta affamano. Qualche volta sono addirittura capaci di lasciare lividi indelebili, come tatuaggi sull’anima che si cerca freneticamente di rimuovere. Come quelli sui quali, chi viene derubato della propria infanzia, ci passa sopra un’invisibile pagliuzza di fieno tutte le sere, strofinando la pelle fino a sentirla bruciare, nel vano tentativo di cancellarne ogni traccia. Gli stessi lividi della bambina con gli abiti perfettamente stirati e con il cuore pieno di grinze a cui la scrittrice, con il proprio romanzo, offre un degno e rispettoso palcoscenico sul quale ripercorrere il proprio viaggio a ritroso. Un passo alla volta. Perché ogni passo è importante. Ogni passo è un’istantanea da ritagliare accuratamente, fino a sentire sempre più flebile l’eco dei propri vuoti affettivi. Scegliere di parlare dell’abuso sessuale infantile è un atto coraggioso, in tempi in cui vanno di moda i sentimenti e le emozioni usa e getta e in cui si prediligono le soluzioni preconfezionate agli inviti alla riflessione. E a Dora Buonfino quel coraggio non è mancato. Con la sua penna delicata ha dato voce al silenzio della protagonista, le ha permesso di aprire il proprio scrigno segreto e di distribuire le sue pagliuzze a chi avrà altrettanto coraggio di prenderle in custodia.”

Annarita Arso

Le mie pagliuzze finale

Le mie pagliuzze

L’abuso su minori

È possibile definire l’abuso sessuale in modi molto diversi. Una definizione generale soddisfacente può essere quella che fornisce Montecchi (1994):

«Il coinvolgimento di soggetti immaturi e dipendenti in attività sessuali, soggetti a cui manca la consapevolezza delle proprie azioni nonché la possibilità di scegliere. Rientrano nell’abuso anche le attività sessuali realizzate in violazione dei tabù sociali sui ruoli familiari pur con l’accettazione del minore.»

Da questa definizione si deduce che l’abuso sessuale non è certamente un’attività che comporti necessariamente l’atto della penetrazione. L’aspetto fondamentale, invece, è quello rappresentato dalla condizione della vittima, impossibilitata a scegliere o a comprendere correttamente quello che sta accadendo o che viene proposto. Nel caso di un abuso sessuale intrafamiliare, quindi, si è in presenza di un abuso sessuale quando la persona coinvolta nella relazione sessualizzata non è in grado di cogliere il profondo significato di quanto viene effettuato su di lei, oppure le conseguenze reali e durature a cui può portare. Si parla di abuso sessuale anche nei casi in cui la persona non viene mai fisicamente toccata, ma viene esposta alla visione o all’ascolto di vicende a contenuto sessuale non pertinenti all’età o alla relazione con l’abusante. Nei casi più evidenti e cruenti la persona che subisce un abuso sessuale è posta nell’impossibilità di agire liberamente mentre viene posta all’interno di una relazione sessualizzata, per esempio attraverso minacce o l’impiego della forza fisica. A causa dell’origine della molestia, l’abuso sessuale intrafamiliare produce, in linea di massima, effetti più gravi di quelli prodotti da abusi avvenuti all’esterno del nucleo familiare. La maggior parte degli abusi sessuali intrafamiliari viene effettuata dai padri, in secondo luogo dai conviventi nel nucleo familiare (nonni, zii, patrigni, ecc,) e, in percentuale molto minore, dalle madri (circa il 7% dei casi). La ricerca clinica indica che un abuso sessuale intrafamiliare può produrre i danni più gravi soprattutto quando sono presenti le seguenti caratteristiche

  • un legame intenso con la persona che effettua l’abuso;

  • una lunga durata dell’abuso;

  • l’abuso resta nascosto o non viene riconosciuto dall’ambiente familiare;

  • la persona abusata non è in grado di parlare dell’accaduto

  • la persona abusata è ancora un bambino.

L’abuso sessuale, specialmente se intrafamiliare, può certamente dare origine a molti problemi psicologici, anche di lunga durata e di difficile risoluzione spontanea nel corso della vita.

Il 15 marzo sarà pubblicato il romanzo di Dora Buonfino, “Le mie pagliuzze”:

Le mie pagliuzze finale

A cinque anni è stata violata la sua libertà di crescere. Vive cercando un modo per tenere lontano chi richiede da lei attenzioni troppo grandi per una bambina. Non sa di essere vittima, non sa di avere il diritto di dire no all’abuso. Può contare solo su se stessa e sulla sua forza di volontà. Una volontà che non la abbandona, che alimenta la ricerca continua di risposte e soluzioni e che la porterà a comprendere se stessa.

La liberazione della donna

Anna Maria Mozzoni è stata la più importante femminista italiana dell’Ottocento. Nasce nel 1837 da nobile famiglia milanese e conosce fin da bambina la discriminazione riservata alle donne: per mantenere agli studi i fratelli, la famiglia, pur risorgimentale e antiaustriaca, il padre la rinchiude in un collegio femminile di spirito gretto e reazionario. Uscita dal collegio, la giovane Anna Maria forma la sua cultura attingendo alla biblioteca di casa. Tra queste letture, gli illuministi francesi e lombardi, i romanzieri contemporanei, Mazzini, Georges Sand e Fourier. Della sua vita privata si sa poco. Vissuta sino al 1894 tra Milano e il borgo di Rescaldina, ha una figlia, forse naturale forse adottiva, che porta il suo cognome, Bice Mozzoni, e che diventerà avvocato. Si sposa solo nel 1886 con un procuratore, molto più giovane di lei, il conte Malatesta Covo Simoni, con il quale nel 1894 si trasferisce a Roma. Muore in questa città il 14 giugno 1920, ormai da tempo appartata dalla lotta politica.

La donna e i suoi rapporti sociali (La liberazione della donna) è, dopo l’operetta giovanile “La masque de fer” 4 atti in francese scritti per il teatro a 18 anni, il primo libro di A. M. Mozzoni, stampato a Milano nel 1864 dalla Tipografia Sociale. È anche il suo lavoro più lungo, scritto prima che l’interesse politico la portasse a tradurre in termini di attualità i diversi aspetti della questione femminile. Come si noterà, l’espressione usata nel testo è «il risorgimento della donna», tratta dal linguaggio dei gruppi democratici dell’epoca, come del resto il titolo; ma, in entrambi i casi, si avverte una concezione del problema diversa da quella tradizionale, dato che i mazziniani dicevano di solito «missione», per indicare il fine delle loro organizzazioni femminili, che avevano di mira non il mutamento della società, ma l’educazione delle donne.

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La liberazione della donna – Anna Maria Mozzoni

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“Infinità – Miriade di te e di me” Raccolta poetica di Marina Morelli

C’era una volta, che tempo non è, Insieme.

Insieme era anche lo spazio, che spazio non è, visto che nulla vi si muoveva essendo Insieme quel che si può definire ciò in cui ogni cosa è al proprio posto. Insieme era perfetto e completo, bastava a se stesso: Insieme era finito.

Chiuso come in un contenitore ermetico, pieno di sé, immobile, limitato dal suo stesso essere spazio, arrivò il momento, che tempo non è, in cui Insieme sentì il bisogno di manifestarsi all’esterno, ma, essendo spazio e tempo, doveva esplodere per creare il proprio esterno nel quale espandersi. In caso contrario, se fosse imploso, Insieme avrebbe annientato se stesso e perso ogni speranza di essere. L’esplosione fu fragorosa e scatenò una grande energia che frantumò Insieme in una infinità, e miriadi di particelle cominciarono a vagare in uno spazio caotico, come polvere invisibile. Tutto era diviso. Allora, Tutto cominciò a muoversi e per farlo vibrava. Tutto era energia e Tutto prendeva la propria direzione, come fosse attratto, ma anche spinto. Tutto, in un certo senso, si cercava. Il movimento prevedeva il tempo e lo spazio. E capitava ogni tanto che ciò che vibrava alla stessa intensità di movimento s’incontrasse, così ciò che era stato diviso ricostituiva una piccola unità. In questi rarissimi casi era possibile vedere un’attrazione completarsi in una perfetta unione.

Marina Morelli

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Infinità – Miriade di te e di me